L’indimenticabile ritratto di una città
In Quer pasticciaccio brutto de via Merulana una Roma arcaica e insieme moderna metropoli tentacolare. Alla scoperta del capolavoro di Carlo Emilio Gadda, pubblicato nel 1957

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana non è solo un giallo senza soluzione, anche se con molti sospetti; e non è unicamente un cosmo linguistico in cui romanesco, italiano forbito, burocratese, dialetti non solo laziali ma anche lombardi e napoletani si incontrano-scontrano; è anche una celebrazione, in chiave talvolta ironica e per questo ancora più autentica del paesaggio urbano -e umano- della Roma degli anni del fascismo, della vitalità, della natura, dello spazio apparentemente antagonista della campagna circostante e di una femminilità spesso offesa, violata, misera ma dalla quale emergono bagliori di purezza che diventano veri e propri quadri letterari, in parte caravaggeschi e in parte espressionisti.
Una bellezza spesso nascosta da “una tendenza al caos”, come quella della signora Liliana, inquieta e generosa cercatrice non solo e non tanto di collaboratrici domestiche, ma di figlie, a compenso di una maternità sempre negata. E di una profonda, indicibile, solitudine.
Una pietas abissale e appena nascosta dagli episodici tagli umoristici, forse per allontanare il sospetto di buonismo a tutti i costi, accompagna una delle molte tentate figlie, “la Ines”, “nuda, sprovveduta: come sono i figli e le figlie senza ricovero e senza sovvento (sic) nell’arena bestiale della terra”.
È come se il narratore volesse in qualche modo compensare con quello sguardo paterno (Gadda visse praticamente da solo dopo la morte della madre) il caos e il non senso di quella bestiale arena che è fatta anche di architetture urbane, mercati chiassosi e anch’essi caotici, soprattutto Piazza Vittorio, di strade metropolitane (come la via del titolo) e consolari, specialmente l’Appia, vicoli maleodoranti, improvvise apparizioni di basiliche e di chiese.
San Giovanni Laterano viene in mente al narratore attraverso una sorta di rivelazione rovesciata, perché i “dieci ditoni” del protagonista dolente e solitario, il commissario Ingravallo, sembrano di quelli “che stanno in piedi su la balaustra, sopra ar cornicione de San Giovanni Laterano”. Ed è questa la zona di Roma privilegiata dal racconto di un romano -Gadda era nato a Milano- adottivo, quella del mercato, delle chiese circostanti, e poi verso il foro, a “via di san Paolo della Croce” o “via della Navicella o di santo Stefano Rotondo. L’archivolto era quello di san Paolo, se non l’arco di villa Celimontana a lato santa Maria in Dòmnica”, con “Santo Stefano Rotondo precluso al culto, a quegli anni, in ragione di certi lavori di riprìstino”.

Ma Quer pasticciaccio è un profluvio di direzioni, di vicoli, di piazze, di numeri di tram, di orari di autobus o di treni, come in un servizio romanzato -e poetico- di pagine gialle: “discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicchè in una ventina di minuti raggiunsero il numero civico duecentodicinnove (sic)”.
Ma, come abbiamo anticipato, non solo Roma, ma Latium Vetus, con “una scappata a Marino”, che diviene uno dei luoghi per eccellenza del romanzo, e Tivoli, attraverso una pagina indimenticabile per ironia e sottintesi erotico-popolareggianti su una infrattata di una coppia piuttosto dissestata -e in preda all’ebrezza del vino- a Villa Gregoriana, interrotta dall’alta moralità, magari un po’ invadente, di un turista tedesco che va dritto a protestare presso “l’amministrazione”.
Una varia umanità, soprattutto femminile, proveniente da una campagna fascinosa e memore della bellezza muliebre che portò a ratti e sfide mitiche, con la descrizione quasi ammaliata di immensi occhi neri che lasciano baluginare una consapevole ma lacerata fierezza, memoria archetipica di matrone etrusche, latine o sabine e prima ancora divinità agresti dai poteri misteriosi.
Donne che arrivano “co la viterbese (…) da Soriano ar Cimìno”, dai Castelli, o transitano per Ciampino, o che abbandonano le povere case dalla Sabina tornando, come in un economicistico ratto moderno, nella Roma dei Santi Quattro Coronati, o “pe la direttissima der viale Regina Margherita”, o San Lorenzo al Verano, o a Campo Marzio o a San Lorenzo in Lucina.
In poche parole il lombardo, mescolatore linguistico Gadda, riesce a ricreare e attualizzare una storia arcaica, quella di Roma, in cui fuori e dentro apparenti ridiventano l’umore profondo della dominatrice dell’allora universo mondo. Un mondo originariamente fatto di incontri tra etruschi, latini, sabini, divenuto metropoli ma anche periferia e collina, e campagna, e lago e mare: il tutto narrato in un racconto plurilingue che riesce però a conservare l’unità nella differenza, e offrirci un raro ritratto dell’Urbe, delle sue radici ma anche della solitudine, della ricerca di amore, o semplicemente di cibo, in una nuova Babilonia dalle innumerevoli lingue. Ma con la evidente presenza, celata ma non cancellata, da ironia e cinismo, della pietas verso gli ultimi, coloro che per mangiare o per dormire da qualche parte sono costretti a passare per le forche caudine del disprezzo e del moralismo ipocrita.
Marco Testi