Retrofuturo
Al Macro di Roma una mostra che coniuga futuro e passato perché fa coesistere, in una strana contemporaneità, l’opera attuale di giovani artisti con la memoria dell’arte dei maestri contemporanei che li hanno preceduti
Quando il museo Macro fu inaugurato, nel 2010, in mezzo alla compassata via Nizza, risultò subito evidente che quello era un edificio ardito anche rispetto ad altri interventi di architettura contemporanea fatti nella città, come il museo MAXXI, o la teca Mayer all’Ara Pacis.
Il Macro si imponeva oltre ogni misura, sottraendosi a qualsiasi paragone, quasi come un’arrogante provocazione fatta dall’archistar Odile Decq, rivolta non solo a ogni reminiscenza di tradizione, ma anche all’idea stessa di museo.

Eccentrico e certo ingombrante, al suo interno uno spazio labirintico, immerso nel nero, giungeva fino ad appropriarsi dell’antico edificio liberty della ex birreria Peroni, a piazza Alessandria, coinvolgendo già i primi visitatori in un percorso disorientante.
Anche la storia della sua amministrazione fu complessa come la sua struttura. Un po’ perché l’arte davvero contemporanea è difficile da gestire, un po’ perché parte delle collezioni d’arte moderna che il Comune di Roma aveva messo insieme negli ultimi due secoli dovevano essere smistate in questa sede museale. E certo il MACRO, esso stesso “opera d’arte”, è da subito risultato difficile da gestire come semplice contenitore nel quale far coesistere le funzioni di conservazione ed esposizione delle opere.

Le attività, poi, che in questo edificio si tennero, seppure segnate dai diversi orientamenti culturali dei vari direttori, furono sempre all’altezza delle sue ambizioni rivoluzionarie: installazioni, performance, video, conferenze. Eventi di ogni tipo, ma anche mostre di dipinti o sculture. Autori quasi sempre internazionali, perché tutto al Macro doveva avere dimensione straordinaria.
Ma verso l’avvicinarsi del secondo decennio del ventunesimo secolo le ambizioni del museo divennero sempre più difficili da soddisfare, sia a livello culturale che espositivo, e non solo per questioni economiche.
Così, quasi senza che i romani se ne accorgessero, il Macro divenne “improduttivo”, e il suo enorme spazio espositivo rimase muto.


Nel 2020, il suo nuovo direttore, Luca lo Pinto, lo prese in carico, dopo che la sua amministrazione era passata, nel 2018, in gestione al Palaexpo, decidendo di cambiare rotta: non più luogo degli eventi eccezionali, non più neanche museo d’arte, ma spazio aperto a qualsiasi produzione dell’immaginazione.
“Museo dell’immaginazione preventiva” è infatti divenuto il suo novo nome, a significare che in quello spazio doveva liberarsi la potenza immaginifica di interventi estetici capaci di trasfigurare la dimensione percettiva del reale, per rendere partecipi i visitatori dell’essenza creativa dell’Arte.
Un museo sempre attivo, che potesse essere visitato con agilità, come si sfoglia una rivista, girando in modo libero e gratuito tra i suoi spazi, nei quali sono sempre ospitate in contemporanea più mostre, non legate da uno stesso criterio, ma capaci di coinvolgere lo spettatore in situazioni sempre diverse, dove il semplice guardare può divenire, in sé stesso, un atto creativo.
“Retrofuturo” è appunto una mostra allestita in uno di questi immensi spazi. Essa coniuga futuro e passato perché fa coesistere, in una strana contemporaneità, l’opera attuale di giovani artisti con la memoria dell’arte dei maestri contemporanei che li hanno preceduti. A questo scopo Giovanna Silva, incaricata dai curatori della mostra, ha infatti fotografato i depositi del museo dove vengono conservate le opere della collezione comunale, e le ha riportate con gigantografie in bianco e nero sulle pareti dell’immenso spazio dove sono collocati i lavori degli espositori. L’effetto raggiunto, nella sala sostanzialmente vuota, da queste immagini sgranate che appaiono come proiettate sulle sue pareti, è straordinario: metafisico, destabilizzante e commovente al tempo stesso.


Dai grigi del sapiente bianco e nero affiorano dipinti che mostrano solo il telaio, o sagome di altre opere non identificabili, avvolte in fogli di plastica da imballaggio, o lembi di quadri incolori. Ogni cosa incastrata nei montanti di scaffali enormi, visibili solo in parte. Oggetti misteriosi, marchiati da scritte che riportano alla nostra memoria nomi di famosi artisti, come potrebbero farlo i versi di una poesia. Altre volte invece la loro presenza si manifesta in figure spettrali, ormai consegnate anche esse alla dimensione atemporale di questo luogo buio, come De Chirico o Andy Warhol, che sembrano affacciarsi per un attimo alla nostra contemporaneità con lo sguardo assente di chi fissa l’infinito.
Chiuse nei depositi del museo queste opere ci si mostrano così nella loro prigionia, che è identica a quella nella quale sono rinchiuse tutte le collezioni dei musei, delle quali non conosciamo l’esistenza perché non le vediamo esposte. Eppure, in questa mostra le opere non evocano il dramma di una reclusione, né quello dell’oblio, ma l’immagine di una resurrezione. E diventano presenze diafane, fatte di una sostanza leggera come quella dei ricordi. Oppure quella della quale sono fatti i fantasmi che, come gli artisti, a volte, con le loro apparizioni, mettono in discussione la solidità del mondo che crediamo di conoscere.
In questo spazio di resurrezione trovano giusta collocazione le opere attuali di giovani autori chiamati ad esporre, ai quali si aggiungeranno quelli che via via il museo inviterà. Opere fatte di lamiere, come quella di Gianluca Concialdi, opere tecnologiche, come i video di Alessandro Cicoria, e quelli di Carola Bonfili o misteriose come il grande tessuto di Margherita Raso. Ma anche opere ad olio su tela e a bassorilievo come quelle di Ludovica Carbotta, e Giorgia Garzilli, oppure fotografie realizzate con supporti informatici, come quelle di Giorgio di Noto. E molte altre ancora, diverse per tecnica e linguaggio, ma simili per capacità immaginativa.
Opere forse, per alcuni, difficilmente comprensibili, opere certo enigmatiche, come del resto deve essere sempre l’arte contemporanea.
Opere che però sanno guardare in faccia il travaglio della nostra epoca, come fa la Street-Art Sagg Napoli che scrive su una parete a lettere scarlatte: “AM I INTUITIVE OR AM I PARANOID”.
Licia Sdruscia